20 novembre. Lettera di un bambino (ormai adulto) figlio di divorziati 

20 Novembre 23

In occasione della giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (20 novembre), l’ATFMR – Associazione Ticinese Famiglie Monoparentali e Ricostituite – ha voluto dar voce proprio a un bambino (ormai adulto), che ha vissuto l’esperienza della separazione dei genitori. All’interno degli accesi dibattiti in corso sull’evoluzione del diritto di famiglia – pensiamo in particolare alla recente mozione Romano volta a fare della custodia alternata la norma – la voce dei bambini è troppo spesso dimenticata e il vissuto dei bambini reali scompare dietro discorsi ideologizzanti e fuorvianti.

Difendere i diritti dei bambini è possibile solo aprendo gli occhi sui bambini reali e sui loro bisogni concreti, ascoltandoli, rispettandoli e proteggendoli.

In occasione della giornata dei diritti dell’infanzia e in queste ultime settimane, in cui si sente molto parlare di diritti dei bambini, io desidero parlare come adulto (adesso) che ha vissuto il divorzio dei suoi genitori da bambino.

Sono grande, ormai ho quarant’anni. Sono vissuto in un’epoca dove il divorzio iniziava timidamente ad essere una realtà mentre ora se ne parla liberamente. Al di là del fatto che oggi la condizione di “figlio di divorziati” sia la consuetudine ci sono determinate cose all’interno del vissuto e dell’animo dei figli che non cambiano.

Nel corso degli anni ho incontrato altri ragazzi che avevano vissuto come me il divorzio, da educatore ne conosco molti che stanno vivendo il divorzio ora e ho avuto modo di confrontarmi con la mia terapista per diversi anni perché ho diverse cicatrici che ancora mi porto dentro da quell’infanzia in parte felice e in parte contraddistinta dall’aggressività e dal conflitto.

Mi spiace dirlo, ma spesso a causa di una incapacità nel riconoscere e distinguere il mio essere figlio dal suo essere ex marito, mio padre perpetrava conflittualità contro mia madre e – di conseguenza diretta – su di me.Non ne era consapevole, lui parlava di diritto del papà di star con il figlio ma poi a conti fatti tutto guardava tranne che il mio bene. 

Sapete cosa sarebbe bastato? Deporre le armi. Guardarmi, non creare una lotta per ogni questione (dalla visita medica alla scelta o meno di fare religione) e chiedersi, per una volta: “Di cosa ha realmente bisogno?”

Se solo l’avesse fatto io non mi sarei sentito costantemente la causa della loro sofferenza, travestita da amore genitoriale. Avrei voluto sparire, arrivavo a staccare il telefono dalla spina (eh si una volta c’erano le spine elettriche) per evitare che lui chiamasse e che un voto, un accordo sull’orario che variava, rischiava di trasformarsi in un acceso dibattito al quale, io ahimè ero spettatore (anche se nell’altra stanza: non credete che i bambini, “al di là del muro” non sentano tutto) e del quale mi sentito causa ed effetto.

Adesso parlate di bigenitorialità, di affido condiviso: voi che ne parlate, che non l’avete vissuto il conflitto sulla vostra pelle, lo sapete cosa significhi tirare un sospiro di sollievo perché quella sera non aveva chiamato e, per una volta, non ti eri sentito la causa di tanta aggressività e violenza verbale?

Lo sapete voi cosa significhi sentirsi dire da un mio allievo “Se morissi loro non litigherebbero più, sarebbe meglio non ci fossi mai stato?”

Lo sapete cosa vuol dire “bigenitorialità”? Credete faccia rima con tempo di accudimento e costi ripartiti equamente?

Beh, signori miei, iniziate a fare un passo indietro e iniziate a chiedervi cosa significhi realmente. Non è tempo di quantità ma è tempo di qualità. È riuscire a sentire il vostro ex marito o la vostra ex moglie mettendo davvero al centro il vostro bambino, il VOSTRO bambino, non uno immaginato o legalmente riconosciuto per legge. Significa dire “qui sono in difficoltà, sto soffrendo, mi faccio aiutare” senza vedere nell’altro genitore il persecutore e la causa di ogni vostro male. Riuscire a fare un passo indietro per evitare inutili triangolazioni, non un passo avanti in nome di una giustizia su carta che non ha niente a che fare con NOI figli.

Si, mi metto dentro anch’io, anche se adesso sono grande e pluri-vaccinato.

Perché se non c’è un vero intento di collaborare, di comprendere l’altro genitore e di fare davvero un lavoro “cucito a misura” sui bisogni di NOSTRO figlio (sempre quel bambino lì, quello che vive e respira grazie alla vostra decisione o casualità di diventar genitore) allora lasciate stare l’affido condiviso.

Sapete cosa mi salvava a me? Il fatto che il mio altro genitore faceva spesso un passo indietro per non farmi sentire il centro delle loro discussioni. Il fatto che piuttosto che puntualizzare l’ovvio lasciava correre e, soprattutto, attenzione tutti, il fatto che vivendo con lei e vedendo mio padre solo nei fine settimana, il mio sentirmi al centro della loro guerra si limitava ai momenti di passaggio e di scambio telefonico, che se fossero stati maggiori – in un’ottica solo sulla carta di genitorialità condivisa – mi avrebbero portato a una certa e grave depressione negli anni a venire.

Adesso posso parlare, adesso il mio essere stato figlio di divorziati – davanti a tutti questi discorsi che trasudano ideologie dettate da sofferenze e bisogni irrisolti di genitori che non sempre sono in grado di esserlo ma continuano a rivendicarlo più come un diritto che come un dovere – mi fa venire voglia di proteggerli quei bambini lì, che non sono nient’altro che me trent’anni fa.

Mio padre mi ha chiesto perdono qualche anno fa. Si è accorto di come avrebbe potuto agire e di, invece, come è riuscito in certi momenti a tirare fuori il peggio di sé perdendosi una bella fetta del VERO ME. Io naturalmente l’ho perdonato, lo amo tantissimo, quanto amo mia madre. Vi sembra strano? No, sono i miei genitori, con tutte le loro debolezze e le loro bellezze, lo sono sempre stati. Ma avrebbero potuto fare meglio.

Non perdete l’occasione di FARE MEGLIO.